In questa stagione così piena di conflitti vorrei dare voce alle domande che Benedetta Tobagi pone come incipit all’inizio del suo libro La Resistenza delle Donne.
«Sai chi sei?
Sai a cosa sei chiamata?
Per cosa vale la pena vivere e morire?
Che cosa è giusto fare?
Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose?
Invisibile o sfrontata, mani impeccabili o spellate, sporche d’inchiostro o di farina, mitra in spalla o in casa a dar di pedale sulla macchina da cucire. In quanti modi puoi lottare?
Chi vuoi essere?
Dentro quali sguardi ti muovi?
Sei madre? Ti senti madre?
Potresti uccidere? E a dare, invece, la vita? ("Dare la vita": le stesse parole per significare il mettere al mondo qualcuno e l’esser pronta a morire).
Essere donna è avere la guerra dentro, sempre, da sempre.
Cosa farai nei conflitti là fuori?
Come scriverai il tuo nome nel libro grande della storia e della vita?»
È un incipit meraviglioso, che sento rivolto personalmente ad ognuno di noi in ENGIM, chiamati a scoprire la preziosità di ogni essere umano e a mettersi in ascolto delle persone che incontriamo nei diversi contesti locali in cui la fondazione è presente.
Per noi questo camminare insieme significa innanzitutto mettersi “In ascolto del grido dei giovani e della terra e animati dallo Spirito, come fratelli e sorelle, apriamo nuovi cammini di speranza”.
Il senso del grido
Il grido è dei giovani “e” della terra: è il tempo dell’”et” e del “con”, delle relazioni che precedono le identità, della co-appartenenza e della nostalgia dell’armonia, della responsabilità (anzi dell’ascolto, del lasciarci parlare…) prima che della signoria.
Un grido coglie la nostra attenzione non per il contenuto espresso ma per il suono, il tono, l’intensità, la corporeità... può essere anche un grido silenzioso, è dell’ordine del corpo, degli affetti, del cuore, delle relazioni… il grido contiene un appello.
L’ascolto di un grido implica un ascolto dello stesso ordine, implica “sintonia”, “empatia”. SI ASCOLTA DAVVERO SE SI “CAMMINA INSIEME”.
Se avvertiamo la necessità di parlare di “grido dei giovani” è forse perché sentiamo che come FONDAZIONE, come Famiglia del Murialdo, a volte non lo intercettiamo.
L’ascolto del grido dei giovani implica conversione ecclesiale, mentale, spirituale, pastorale.
Il contenuto o l’appello del grido
Qual è l’appello contenuto nel grido dei giovani? Faccio qualche ipotesi evidenziando la sfida per noi ENGIM.
Il grido è un appello di riconciliazione, di misericordia, di fiducia. Ci dà il senso dell’attualità del nostro carisma centrato sull’educazione e sul sentirsi amati (v. il cap. IV di Christus Vivit)
Il grido contiene un bisogno di “contesti” cui “appoggiarsi” per orientarsi nella complessità attuale, per abitare la dialettica io-altro-cielo-terra, per riconciliarsi col tempo (il tempo è superiore allo spazio, connessione tra continuità e kairòs).
Ci spinge a pensarci come COMUNTÀ, a pensare la proposta educativa dalla prospettiva del clima, del contesto.
Il GRIDO contiene un bisogno di raccontarsi, di ascoltare racconti, di abitare racconti fondativi. Ci spinge alle esperienze di formazione reciproca, a centrare di più la proposta formativa sulla Scrittura, sul linguaggio narrativo, affettivo, simbolico della Scrittura.
Il grido che proviene dalle periferie non può essere ignorato, ci basta pensare che Dio stesso si è fatto periferia, è andato al di là di ogni schema logico, è andato incontro alla debolezza, alla fragilità. I diritti consegnano riconoscimento e dignità all’essere umano e non possono perciò essere negati, anche perché “Chi non è passato dalla porta dei diritti, farà difficoltà a passare dalla porta dei doveri”.
Realizzare se stessi comprende sempre anche gli altri. Una buona guida è Martin Buber, che afferma che «l’io costituisce se stesso nel tu».Per lui la relazione tra persona e persona è il centro dell’esistenza umana, «qualcosa che non ha l’eguale nella natura» (Il problema dell’uomo, Marietti, 2004).
È l'incontro il centro di ogni nostra azione. Un incontro in cui l’IO non si appiattisce nell’ALTRO e l’altro non è solo annullato dal nostro io. Anzi: trovo l’io trovando Dio e il noi, capendo che la domanda di fondo della vita «per chi, a che scopo?», come sempre scriveva Buber ha solo una risposta: «Non per me».
Concludo utilizzando le parole di Bertolt Brecht per rispondere alle domande di Tobagi.
Cosa farai nei conflitti là fuori?
Come scriverai il tuo nome nel libro grande della storia e della vita?»
Dici: per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era appena cominciato.
E il nemico ci sta innanzi più potente che mai. Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso una apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo. Siamo sempre di meno. Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili.
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi?
O contare sulla buona sorte?
Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua.
padre Antonio Lucente
Presidente ENGIM